Iran
Puntata 1
Mare Mosso
La gita a Chalus, Malia la ricorda bene, anche se era molto piccola: è stata la prima volta che ha visto il mare. Non era una bella giornata, ma una di quelle dal sole caldo e astioso, che seccano la pelle, e il cielo era scuro di nuvole arrabbiate.
Lei, la mamma e il papà passeggiavano sulla spiaggia, le impronte delle scarpe sulla sabbia umida, e il vento fortissimo le faceva sbattere la gonna contro i polpacci e le agitava i capelli. Le onde si alzavano una dietro l’altra, alte e furiose, di un blu così scuro da sembrare nero, e poi di colpo diventavano miriadi di spruzzi trasparenti quando si infrangevano sulla costa. Malia aveva paura, non era certa che il mare le piacesse. Sembrava così violento. Quando si era voltata, però, il papà le aveva sorriso e le aveva stretto forte la mano. A un tratto le onde impetuose le erano parse stupende.
È a quel mare violento che sta pensando ora Malia, dopo tanti anni, sforzandosi di non piangere. La folla che ora si apre e si chiude, si agita intorno a loro con un rumore sempre più forte mentre la mamma la tiene stretta, le ricorda il mare in burrasca, il mare arrabbiato e implacabile di quel giorno. Solo che ora la mano di papà è scivolata lontano dalla sua, quando quei poliziotti l’hanno portato via. E Malia, senza la sua stretta sicura, ha tanta paura.
È cominciato tutto qualche mese prima. Era il 13 settembre quando in Iran, il paese dove vivono Malia e la sua famiglia, ha cominciato a diffondersi la terribile notizia: proprio nella loro città, Teheran, una giovane ragazza di nome Mahsa Amini era stata arrestata dalla cosiddetta polizia morale per non aver indossato correttamente il velo. Alle donne in Iran non è concesso vestirsi come vogliono, o avere gli stessi diritti degli uomini. Non possono mostrare i capelli, o indossare abiti colorati, o a maniche corte. Non possono entrare in alcuni luoghi pubblici o studiare. Non possono neanche ballare. Se non rispettano le leggi indicate dallo stato, vengono considerate vergognose e immorali. Perché? Malia non sa davvero dirlo. Che differenze ci sono fra lei e un “maschio”? Il loro corpo è diverso, come le ha mostrato il papà – che fa il medico – su un libro di scienze, ma nemmeno poi tanto. E invece la polizia regolarmente arresta e maltratta donne e ragazze se non rispettano l’obbligo di indossare l’hijab, il velo sul capo. Malia ha cominciato a portarlo quando non sapeva ancora leggere e scrivere bene:Secondo una legge, infatti, le femmine hanno l’obbligo di metterlo a partire dai sette anni. La mamma le aveva mostrato come si indossava e si era raccomandata con lei: non doveva mai uscire senza, perché poteva essere molto pericoloso. Ora che è diventata grande, e di anni ne ha undici, pensa angosciata, se non indossasse il velo in pubblico potrebbe essere punita con la prigione fino a due mesi, o con multe molto care. Ma, come ha scoperto con la storia di Mahsa, potrebbe andare anche molto peggio. Infatti Mahsa Amini è stata picchiata violentemente da alcuni poliziotti mentre veniva trasferita con la forza nel centro di detenzione di Vozara a Teheran. Proprio per non aver indossato il velo in modo corretto, o almeno così sostengono le autorità, forse qualche ciocca di capelli era sfuggita fuori. La ragazza è entrata in coma ed è morta tre giorni dopo.
Questa volta, nonostante la paura, il popolo iraniano non è rimasto in silenzio. Le proteste sono cominciate subito. Malia ricorda i primi video che circolavano su Whatsapp: il papà li aveva fatti vedere alla mamma una sera, dopo cena. Mostravano lunghi cortei di persone per le strade di Saqquez, la città natale di Mahsa Amini, che Chiedevano giustizia per lei. Presto, però, i video hanno smesso di apparire sui loro cellulari. Il governo, infatti, ha bloccato l’accesso a internet, cercando di fare in modo che le proteste non si diffondessero e che i cittadini rimanessero all’oscuro di quanto era successo. Ma non è bastato a fermare la rabbia del popolo iraniano. Anche se non hanno più potuto caricare online i filmati, le manifestazioni si sono diffuse comunque in lungo e in largo per il paese. Persone di tutte le età, di ogni genere e ceto sociale, sono scese in strada da Saqqez a Teheran. Per ricordare Mahsa, certo, ma non solo. Il popolo iraniano, proprio come Malia, ha cominciato a chiedersi perché maschi e femmine debbano essere trattati in modo differente, perché non possano avere gli stessi diritti. Così, le manifestazioni sono diventate veri e propri moti di dissenso: contro l’obbligo di indossare sempre il velo, contro l’oppressione dei diritti umani e della libertà. Cortei per protestare contro un governo repressivo e crudele. Fra loro, c’erano anche i genitori di Malia. Le autorità iraniane hanno cercato di mettere a tacere le proteste. Sono arrivate notizie terribili: manifestanti picchiati, persone arrestate senza un vero motivo. Per questo, quando quella mattina il papà le ha comunicato che lui e la mamma si sarebbero recati a una manifestazione pacifica, nel centro di Teheran, è scoppiata a piangere terrorizzata.
“So che hai paura, tesoro” le ha detto il papà, asciugandole le lacrime.”Ma vedrai, non ci accadrà niente. Staremo attenti. Però dobbiamo andare. Quello che voglio per te è che tu possa diventare grande ed essere tutto ciò che desideri. Che sia tu a scegliere per te stessa. Ecco, se non lottiamo perché questo accada, non potrà mai essere così”. Malia ha annuito, tirando su con il naso. Vedere il papà così deciso, così sicuro, le ha dato forza.
“Voglio venire anche io, allora” ha detto. I suoi genitori si sono guardati. Malia ha visto un lampo di preoccupazione nei loro occhi. “Vi prego, non lasciatemi qui da sola. Portatemi con voi”. Il papà ha sospirato forte.
“D’accordo. Ma prometti di non allontanarti mai e di fare tutto quello che ti diciamo. Anche scappare, se necessario. Promesso?”
“Promesso”, ha detto Malia facendosi un segno sul cuore. Poi il papà ha baciato la mamma sulle labbra e l’ha stretta a sé, guardandola negli occhi. Sono usciti tutti e tre insieme, tenendosi per mano.
Le persone marciavano per le strade di Teheran, cantando e tenendo alti cartelli e striscioni. Alcune ragazze bruciavano veli, c’erano donne che si tagliavano con le forbici i lunghi capelli, come forma di protesta. E poi diverse persone hanno cominciato a parlare a voce alta dei diritti umani e di quelli delle donne. Di pace e libertà. Sognavano di un nuovo governo politico, non più un regime, ma un paese libero e democratico, un Paese in cui si potesse scegliere se indossare il velo o no, se credere o meno in una religione. In cui anche le bambine come Malia potessero diventare astronaute, presidentesse, scienziate. Il papà era fra questi, e lei non si era mai sentita tanto fiera di essere sua figlia.
“Voglio vivere in un paese in cui la mia bambina, la mia bellissima figlia, non debba mai più preoccuparsi di non poter diventare tutto ciò che sogna, soltanto perché è nata femmina. E per questo dobbiamo lottare tutti insieme, uomini e donne. Dobbiamo credere in un futuro migliore”, ha detto. Lei e la mamma lo guardavano sorridendo. Era bellissimo.
Finché non è arrivata la polizia. Le voci e le urla della folla ne hanno annunciato l’arrivo prima ancora delle sirene delle volanti. Picchiando la gente, i poliziotti, hanno portato via molte persone, tra cui il papà mentre stava ancora finendo di parlare. Si sono sentiti spari e grida. La mamma l’ha stretta a sé e ha cominciato a correre, a correre così forte che Malia poteva sentire il suo cuore battere, come se le stesse bussando nel petto. Non si è fermata finché non sono arrivate a casa. A terra, mentre fuggivano lungo la strada, Malia ha visto corpi insanguinati, persone colpite dai manganelli dei poliziotti. Donne che piangevano e urlavano. Immagini che ora non riesce a scacciare dalla testa, che le brillano ancora negli occhi, come un brutto film. Una volta rientrate, la mamma ha chiuso a chiave la porta e si è abbandonata sul divano, respirando affannosamente.
“Dove hanno portato papà? Cosa gli succederà?” le ha chiesto Malia, con la voce che tremava.
“A una stazione di polizia. Dev’essere andata così. Ma non ha fatto nulla di male, amore mio. Vedrai che lo lasceranno andare dopo avergli fatto qualche domanda”, ha detto la mamma. Malia, però, ha notato bene che mentre parlava evitava di guardarla negli occhi. La mano le tremava leggermente.
È ormai notte. Dalla finestra il cielo si staglia nero e spesso come una coperta scura, buio come le profondità del mare, quel giorno a Chalus. Non si vedono le stelle. La mamma appoggia la fronte sulla spalla di Malia, l’abbraccia. Il papà non è ancora ritornato. Non l’hanno lasciato andare.
“Vorrei solo stringere ancora la sua mano nella mia”, pensa Malia, mentre le lacrime le scivolano sul viso. Intorno a lei, la stanza sembra farsi di vetro. Anche la mamma, esausta, scoppia a piangere.
Il nuovo hijab è rosso fiamma. Quando ha aperto il regalo, la mattina prima di andare a scuola, si è messa quasi a ballare dalla gioia. è da grande, con piccole decorazioni argentate, proprio come quello della mamma. Sophie l’ha abbracciata stretta. Adora la mamma e i piccoli regali che ogni tanto le fa senza che ci sia un vero e proprio motivo. Avrebbe voluto indossarlo subito, ma a scuola non poteva metterlo, così ha aspettato il pomeriggio: la festa di compleanno di Manon sarebbe stata l’occasione perfetta.. Prima di salire sul pullman, per arrivare a casa della sua compagna di classe, si è controllata un’ultima volta nel riflesso del finestrino e si è fatta un grande sorriso. Si sentiva proprio bella.
La città dove vive Sophie si chiama Lione, e si trova in Francia. La sua famiglia ci abita da parecchio tempo, fin da quando i nonni, che venivano da un paese di nome Libia, non sono arrivati lì con un lunghissimo viaggio e ci si sono trasferiti. È a Lione che la mamma ha conosciuto il papà ed è a Lione che è nata Sophie.
Quando era ancora piccola, l’ha mamma l’ha portata con sé in moschea: era un luogo ampio e silenzioso, dove la gente poteva parlare con Dio e pregare – così ha detto. Indossava proprio il suo hijab rosso quel giorno, il più bello ed elegante di tutti. Ha aggiunto che, se voleva, anche lei poteva andare in moschea quando preferiva, ma che non era obbligata ovviamente: era lei a dover scegliere. Con il tempo, anche Sophie ha deciso di abbracciare la religione della mamma, che si chiama Islam. Quando è stata abbastanza grande, ha cominciato a coprirsi i capelli con l’hijab in segno di rispetto verso Allah, il nome con cui i musulmani chiamano Dio. Le piace abbinarlo ai vestiti che indossa, ne ha di molti colori.
Però, non sempre è facile per Sophie. Perché in Francia alcune persone, che non conoscono nemmeno lei, la sua famiglia o la sua religione, hanno paura dei musulmani. Si chiama “islamofobia”, le ha spiegato sua mamma: è un odio e una grande paura verso le persone di fede islamica e la loro cultura, e non riguarda solo i francesi. È iniziato tutto molti anni prima che Sophie nascesse, quando nel 2001, a New York, alcuni terroristi hanno dirottato due aerei facendoli schiantare contro due altissimi edifici, le Torri Gemelle. Moltissime persone sono morte. Eventi del genere si sono ripetuti in altri Paesi occidentali negli anni successivi. I terroristi responsabili di queste azioni erano estremisti islamici: persone violente che sfruttano l’Islam e la religione per compiere gesti terribili in nome di Allah.
Molti, in Francia e nel resto d’Europa, hanno cominciato ad avere pregiudizi nei confronti dei musulmani, a credere che fossero tutti d’accordo con il pensiero dei terroristi e che la loro religione incitasse all’odio e alla violenza. Alcuni pensano che i musulmani – anche quelli che, come la famiglia di Sophie, abitano in Francia da tempo o sono addirittura nati lì – stiano invadendo l’Europa. Ma l’Islam è solo una religione: Sophie è francese come tutti i suoi compagni.
Anche il velo, che alcune donne musulmane indossano per coprire i capelli, o anche parte del volto, ha cominciato a essere guardato con sospetto. È vero che ci sono paesi estremisti, dove le donne sono costrette a portarlo, ma in paesi come la Francia, questa è una scelta libera e personale. Si può essere credenti e non portare l’hijab, oppure scegliere di farlo. Non c’è un comportamento più giusto di un altro. Eppure, a scuola, Sophie non può indossarlo per via di una legge che vieta tutti i simboli religiosi visibili negli ambienti scolastici. A lei dispiace molto: portare il velo, come simbolo del suo essere musulmana e praticante, è per lei parte della propria identità come avere gli occhi azzurri, o amare la pizza. Per questo, pensa guardando il quartiere scorrere oltre i finestrini del pullman, è molto contenta di indossarlo, adesso. Si sente se stessa, finalmente. Felice di mostrarsi ai compagni della scuola media, che finora non l’avevano mai vista con l’hijab. Come se ora potessero conoscerla meglio, per davvero.
Ma quando è arrivata alla festa, si è subito accorta degli sguardi sospettosi delle altre ragazze. Ha fatto finta di niente, ha fatto gli auguri a Manon, le ha dato il regalo che le aveva comprato, avvolto in una carta da regalo argentata, tutta luccicante. Ha preso una manciata di patatine, bevuto un’aranciata, ballato un po’. C’era quella canzone di Lizzo che le piace tanto. Ma sapeva che qualcosa non andava.
“Perché ti copri i capelli? Sei una terrorista?” le ha chiesto a un tratto un compagno di classe, avvicinandosi a lei. Sophie è ammutolita. Non capisce. Perché pensa una cosa del genere?
“È vero che voi donne musulmane siete obbligate a servire i maschi? E che vi picchiano se non lo fate?” ha domandato un altro ragazzo. Non sa davvero cosa rispondere. È del tutto assurdo. Picchiarla? Chi, il papà che tutte le sere prepara la cena per non far stancare troppo la mamma quando torna dal lavoro? Come possono pensare cose del genere quando nemmeno conoscono la sua famiglia e la sua religione? Come si sono fatti un’idea tanto sbagliata?
“Ma lo devi mettere per forza questo coso? Così rosso serve a farci sapere che stai arrivando, Soph? Così possiamo metterci in salvo? Eh?”
Fino a oggi, nessuno dei compagni si è mai interessato alla sua religione. È l’unica musulmana in classe, va bene, ma non è affatto l’unica a scuola. E ora soltanto per un velo tutti lì intorno a farle quelle domande stupide, le stesse ragazze con cui fino a ieri ha condiviso la merenda, gli stessi ragazzi che le hanno prestato il libro o la penna. Che credeva amici. Li ha sentiti ridacchiare sottovoce, continuavano a bisbigliare. Finché uno di loro non ha preso un lembo dell’hijab nuovo e ha cominciato a tirare.
“Voglio solo vedere se hai ancora i capelli! Magari lo metti perché ti sono caduti tutti” ha riso in modo cattivo.
È stato troppo per lei. Con uno scatto Sophie si è liberata ed è corsa via, lontano dalla festa e dal rumore, mentre i compagni, come se nulla fosse, si riunivano intorno alla festeggiata che stava per spegnere le candeline sulla torta. Si è rifugiata in bagno, ha chiuso la serratura. Seduta per terra, si è stretta le ginocchia con le braccia e ha pianto.
“Perché non posso essere me stessa?”, ha pensato.“Vorrei solo che mi ascoltassero, invece di credere ai loro pregiudizi cattivi”.
Mega sta rientrando soddisfatta alla base dopo una lunga nuotata. Il mare sempre a disposizione è uno dei vantaggi di avere un’isola nel Mediterraneo come base super segreta. Su Ghalis il mare non c’è: Mega nemmeno sapeva nuotare, ha imparato qui, dopo che finalmente hanno finito di sistemare gli scatoloni del trasloco. Facendo ricerche con Bling ha scoperto che gli umani, per imparare a nuotare, utilizzavano degli oggetti di gomma gonfi d’aria, che aiutavano a stare a galla: i salvagenti. Si sentiva tanto buffa, ma l’hanno aiutata a non avere paura. E presto è diventato bellissimo tuffarsi fra le onde azzurre e lasciarsi cullare dolcemente. Le piace proprio, il mare.
Non è ancora entrata nella base che già vede Bit correrle incontro trafelato.
“Ho appena parlato con Pentium! Sono arrivate due nuove richieste di aiuto su Ghalis, una doppia missione!”
È da parecchio che non ne vedono una: i supervisori ghaliani tendono a evitarle, a meno che non ci siano ottimi motivi. Bit sembra molto agitato.
Una volta in sala comunicazioni, anche Mega vede le informazioni lampeggiare sul grande display: Iran e Francia. Di quale delle due missioni devono occuparsi prima?
“So cosa pensi. Non abbiamo tempo, Mega, sono entrambe missioni importanti, tremendamente importanti”. Bit prende un respiro. “Ci divideremo”.
Mega lo guarda dubbiosa, qualcosa di triste le passa per la mente. Un ricordo che sembra lontano, prima della Terra. “Sei… sei sicuro?”
“Per forza. Tu viaggerai con Link in Francia. Io posso trasformarmi in aereo per arrivare in Iran”.
“E Bling?”.
La loro fidata aiutante cibernetica, perfettamente ricaricata, sbuca dalla sua tana in un angolo della sala, trillando entusiasta.
“Bling verrà con te. Io me la caverò senza, ma tu…”
Mega si altera subito: “Pensi che non sia in grado di farcela da sola?”
“Ma no, permalosona! Certo che puoi. Visto però che non ti puoi trasformare, sarei più tranquillo se ci fosse lei con te”.
Mega sorride, più rilassata. Lo deve ammettere, a volte in effetti è un po’ permalosa.
I due amici corrono a prepararsi per la missione.
“Buona fortuna, amica mia” dice Bit a bassa voce, prima di decollare.
“Anche a te!” gli grida Mega di rimando, mandandogli un grande bacio. Poi sale su Link, con Bling appollaiata sulla spalla.