Migrazioni

Puntata 2: Tra la sabbia del deserto

GLOSSARIO

Leggendo il testo potresti trovare delle parole che non conosci, troverai la spiegazione cliccando sulla parola a destra della pagina

Dopo aver salutato Luna, Mega si gira verso Bling e le dice: «Adesso andiamo verso la nave, Bling!». L’androide emette un ronzio indispettito, senza dare alcun cenno di volersi mettere in movimento. 

«Hai ragione Bling, scusaci. Riproviamo. Per favore, potresti accompagnarci alla nave?» interviene Bit. 

L’uccellino meccanico, ora soddisfatto, fa una capriola in aria e inizia a guidare i due in mare aperto. 

Mentre remano, Mega chiede: «Come faremo a salire a bordo? Dovremmo anche travestirci, non possiamo rischiare di nuovo di farci scoprire». 

«Stai tranquilla, ho un piano. Arriveremo abbastanza vicini e poi ci butteremo in acqua e grideremo per attirare l’attenzione e così ricevere aiuto. Cercheremo di non parlare, ma se lo chiederanno diremo che siamo caduti dal peschereccio e che la corrente ci ha spostati. Cosa ne pensi?». Poi, senza aspettare la risposta, continua: «Dobbiamo scegliere anche una lingua in cui parlare! In molti Paesi dell’Africa le lingue ufficiali sono inglese e francese. In Guinea, da dove viene Oumar, parlano  il francese e mi ricordo che tu avevi il massimo dei voti in “lingue terrestri 1: francese”. Possiamo usare quella».

«Parfait! E come facciamo con la barca? Non possiamo di certo lasciarla qui in mezzo al mare! Anche perché è un oggetto ghaliano, se lo trovassero potrebbe saltare la copertura». 

Un lampo di panico coglie Bit. Il suo piano era perfetto, come sempre, ma per la prima volta nella sua carriera da agente aveva dimenticato un dettaglio. Per sua fortuna, alla sua amica basta un secondo per individuare i problemi e trovare delle soluzioni: «Giusto! È un oggetto di Ghalis e come tutti gli altri è magico! Possiamo chiuderla e portarla con noi nell’infinizaino!». Come spesso accade, la soluzione più semplice per risolvere i problemi è sotto agli occhi, ma siamo troppo occupati a pensare in grande per accorgercene. 

Bit sorride a Mega: «Senza di lei sarei perduto» pensa e si rende conto di quanto sia grato di avere vicino un’amica così. «Hai ragione!» conclude «Poi, io posso trasformarmi in bambino. Tu hai ancora l’hijab dall’ultima missione? Potresti coprirti le antenne con quello, e mimetizzarti.».

«Sì! L’ho conservato nello zaino! E ora sono anche esperta nell’indossarlo!» esclama Mega.

ANDROIDE

Un robot, o un essere artificiale, che ha forma
e comportamenti simili a quelli umani

«Bzzz destinazione raggiunta» commenta Bling, mentre continua a svolazzare sul posto.

I due alieni e la loro amica robotica si fermano. 

«Ci siamo» dice Mega «Iniziamo a prepararci». Non fa in tempo a concludere la frase che Bit si è già trasformato. Lei indossa velocemente il velo azzurro. Sono pronti. 

«Grazie mille per averci portati fin qui» dice Bit guardando il piccolo androide e sistemando le antenne sotto al velo. 

«Bzz prego bzz» bisbiglia Bling. Poi, vola qualche metro indietro per non farsi notare, rimanendo comunque vicina ai suoi amici, per intervenire nel caso in cui ne avessero bisogno. 

SPLASH! 

Mega e Bit sono in acqua. Per fortuna erano molto attenti alle lezioni di attività sportive terrestri alla scuola di addestramento per agenti di Ghalis e ora sanno nuotare perfettamente. 

A Bit sale un brivido lungo la schiena ed emette uno squillante gridolino, mentre Mega lo guarda tra il confuso e lo spaventato.

«È fredda! L’acqua della piscina in cui nuotavamo a Ghalis era molto più calda!» si giustifica Bit. La sua compagna ridacchia sotto i baffi e pensa a quanto invece sia rigenerante per lei stare nell’acqua congelata; la fa sentire più viva che mai. Nel frattempo, schiaccia il bottone per rimpicciolire la barca delle emergenze. In un secondo le piccole assi iniziano a richiudersi su loro stesse fino a diventare soltanto un piccolo cubo, che subito Bit recupera e sistema nell’infizaino. 

Continuano a nuotare fino a essere abbastanza vicini alla nave per essere notati e a quel punto iniziano a gridare in francese, sbracciandosi: «Aiuto! Siamo qui! Aiuto!». Nessuno li sente, nessuno sembra accorgersi di loro. Il piano è fallito. 

«Bit cosa facciamo? Non ci sentono» grida Mega sconsolata.

«Gridiamo più forte!».

«AIUTOOO! SIAMO QUI! AIUTOOO!».

Dopo vari tentativi, finalmente qualcuno si accorge di loro e inizia a dare l’allarme sulla nave. 

La capitana e la sua squadra si affrettano a far salire a bordo i due bambini, zuppi e infreddoliti. 

«Da dove arrivate?» prova a chiedere un membro dell’equipaggio. 

I due amici si stringono uno accanto all’altra e non parlano, guardano a destra e a sinistra e si rendono conto di quanta gente c’è intorno a loro. Alcuni soli, altri con bambini stretti intorno. Molte sono donne, tutti hanno il viso stanco e magro. Guardando quei volti è come se avessero dimenticato ogni altra cosa, non riescono neanche a rispondere. 

«Eravate sul peschereccio? Siete caduti in acqua?» continua l’uomo che li ha fatti sedere. I due agenti ghaliani, come risvegliati, si ricordano improvvisamente del loro piano e annuiscono insieme. 

«D’accordo, state tranquilli, ora siete al sicuro» li tranquillizza. Dopo aver controllato che stiano bene e aver dato loro dell’acqua il soccorritore si allontana, lasciandoli soli.  Continua il suo giro tra le persone con una scatola di medicine, per curare chi ne abbia bisogno, per controllare che nessuno abbia la febbre, per distribuire qualche coperta.  Il viaggio in mare, di notte, può diventare molto freddo. 

Mega e Bit continuano a guardarsi intorno: hanno gli occhi lucidi nel vedere i corpi stremati di centinaia di persone accanto a loro, molte con addosso vestiti così consumati da esser diventati sottilissimi. Si stringono la mano e Bit sussurra «Dobbiamo trovare Oumar, siamo qui per lui». 

Mega annuisce, mentre le lacrime le scorrono silenziosamente sul viso. 

Quando si alzano, si accorgono di una bambina che li fissa, gli occhi neri immobili. Inizia a camminare verso di loro, poi si ferma per guardarli da vicino. «Francese?» chiede, per assicurarsi di poter comunicare in quella lingua. Dopo aver ricevuto un segno di assenso, con un filo di voce confida loro: «Sono io che vi ho visti laggiù».  Indica il mare con un braccio. «Sono felice che stiate bene». 

«Grazie» risponde Mega con un sorriso. 

La bambina sorride a sua volta e si presenta «Io sono Rim». 

I nomi! I due alieni si accorgono a un tratto di non aver pensato a dei nomi di copertura per mascherare la loro identità. 

Bit improvvisa: «Io sono Joseph e questa è Amina» dice indicando la sua amica, che risponde con un saluto e chiede «Quanti anni hai?». 

«Dieci» risponde Rim. 

«Da dove vieni?» continua Bit. 

«Da Bir al Malluli, vicino a Sfax, in Tunisia. E voi?».

«Noi veniamo dalla Guinea» risponde Bit, ricordando il Paese d’origine di Oumar, prima di continuare: «Conosci un bambino che si chiama Oumar e che è partito da Sfax insieme a noi?». 

«No, è un vostro amico?» chiede curiosa Rim. 

«Non proprio, ma sul peschereccio eravamo vicino a lui e alla sua mamma e ci piacerebbe incontrarlo di nuovo» conclude Mega, inventando un’ottima scusa.

«Capisco. Se volete vi aiuto a cercarlo» risponde la bambina. 

I tre iniziano la ricerca di Oumar. Si avvicinano all’altra parte della barca passando sul ponte, stretti in fila indiana, muovendosi lentamente tra le persone. Il pavimento è scivoloso: le onde a volte arrivano sul ponte e la ringhiera è ruvida per il sale attaccato.

«Eccolo!» esclama Bit, dopo aver finalmente riconosciuto il viso del bambino, seduto accanto alla madre. 

La madre, preoccupata, lo stringe a sé, ma quando vede avvicinarsi i tre bambini lo lascia andare e accenna un sorriso, incoraggiando il figlio a parlare con loro. 

Mega, Bit e Rim si avvicinano a Oumar e lo salutano. 

«Ciao» saluta cautamente Oumar. 

«Ciao» risponde Bit «Io sono Joseph, loro invece Amina e Rim». 

«Io sono Oumar» dice il bambino. Dopo un attimo di silenzio aggiunge «E lei è la mia mamma, Aicha. Voi siete da soli?».

Rim, guardando in basso con aria triste, è la prima a rispondere: «Io sì». 

«E i tuoi genitori dove sono?» chiede Oumar. 

Rim è titubante, non sa se vuole parlarne. Durante il viaggio non ha ancora raccontato a nessuno di sé e della sua famiglia, ma forse è arrivato il momento.

«La mia mamma, il mio papà e i miei fratellini sono rimasti a Bir al Malluli» inizia. «Un po’ di tempo fa papà ha perso il suo lavoro al negozio e da allora, anche con l’arrivo dei fratellini, è stato sempre più difficile. Lui passava quasi tutto il tempo fuori a cercare lavori, ma spesso non trovava nulla. A volte era difficile avere cibo per tutti, i miei genitori litigavano sempre e io non potevo più andare a scuola perché dovevo aiutare la mamma con i bambini più piccoli». Rim respira profondamente e continua: «Poi, qualche settimana fa, abbiamo ricevuto una lettera da parte di amici che vivono in Francia e sanno che mio padre ha perso il lavoro. Non possono avere figli, ma ne vorrebbero tanto uno, quindi hanno proposto ai miei genitori di mandarmi a vivere con loro. Hanno detto che conoscevano qualcuno che poteva farmi partire subito e che potevano pagare il viaggio. Dopo qualche giorno i miei genitori mi hanno accompagnata a Sfax, a casa di un loro amico, che si è preso cura della mia partenza». Rim alza lo sguardo, ora velato di lacrime. «Prima di salutarci la mamma mi ha dato un abbraccio forte. Piangeva tanto. «Fai la brava bambina mia, ci vediamo presto» mi ha detto invece papà. Io so solo che la Francia è un posto bellissimo, ho visto tante foto, ma volevo andarci con loro, non da sola». Oumar stringe forte la mano di Rim e Mega e Bit la abbracciano. 

«Io ho undici anni» risponde Oumar «Sono qui con mia madre. Veniamo da Conarky, in Guinea. Due anni fa c’è stato un colpo di stato e il mio papà è morto». 

«Cos’è un colpo di stato?» chiede Rim stupita. Non ha mai sentito quelle parole prima d’ora, e anche Mega e Bit non sono proprio sicuri del significato. 

«Vuol dire che delle persone armate hanno cacciato con violenza il nostro Presidente, per sceglierne uno nuovo» spiega Oumar, ripetendo le parole che la madre aveva usato con lui. «Pensate, erano cambiate anche le leggi del Paese! Io e mamma siamo stati ancora un pochino lì. Anche noi ogni tanto non avevamo cibo e io non potevo più andare a scuola, perché dovevo aiutare nell’orto. La mia mamma ha deciso che era meglio per noi andare via, così io avrei potuto farmi nuovi amici e andare in una nuova scuola». Oumar guarda la madre, come a chiedere il permesso di continuare, ma si accorge che lei non sta ascoltando il racconto. È voltata a scrutare il mare, come se stesse cercando qualcosa. Sulla barca si sentono solo le loro voci di bambini, che rompono l’esausto silenzio circostante. Si gira nuovamente verso i tre e continua: «Prima di partire abbiamo fatto i passaporti falsi e dato un sacco di soldi a un signore che ci ha accompagnato a prendere un bus, così siamo arrivati a Bamako, in Mali».

«E non vi hanno scoperti?» chiede Rim preoccupata. 

«Quando siamo arrivati alla frontiera, dei poliziotti ci hanno chiesto i documenti. A me batteva fortissimo il cuore, pensavo ci avrebbero arrestati. Mia madre, che è molto coraggiosa, era tranquilla e guardandola mi sono calmato anche io. Ha dato loro i nostri passaporti finti e, dopo uno sguardo, ci hanno fatto andare avanti» risponde Oumar. Poi  continua: «A Bamako ci hanno fatto scendere dal bus, ci hanno divisi in gruppi e ci hanno fatti salire su dei furgoni. Ci sono volute tantissime ore per arrivare a Timbuktu, io ero stanco e volevo tornare a casa. Mi veniva da piangere, ma non volevo che gli altri pensassero che fossi un fifone. Siamo arrivati lì a notte fonda e abbiamo dormito in un vecchio magazzino. Era ancora buio quando ci hanno svegliato gridando e iniziando a strattonarci. Dicevano che era ora di partire, e che dovevamo essere veloci. Siamo stati caricati su un altro furgone, con persone diverse. Andando avanti si vedevano sempre meno case, iniziava il deserto». Oumar ha lo sguardo lontano, sta visualizzando di nuovo il viaggio in quel paesaggio, così diverso da tutto ciò a cui era abituato. «Non l’avevo mai visto prima, in Guinea non esiste il deserto; c’è l’oceano, ci sono i boschi e i fiumi, abitati da tantissimi animali» conclude con un sorriso, ricordando il suo Paese. «Da quel momento in poi ho visto sempre e solo rocce e sabbia intorno a me. Il sole era alto quando ci hanno fatto scendere dal furgone: «Da qui si andrà a piedi. La frontiera dell’Algeria è molto controllata e dobbiamo stare attenti. Nel deserto non fermatevi, non perdetevi. Io cammino, voi camminate. Se vedete qualcuno, correte. Nel deserto non ci si può nascondere» ha gridato l’uomo che guidava il furgone, con aria seria. Così abbiamo iniziato a camminare». 

Mega e Bit non riescono a staccare gli occhi da Oumar, Rim gli stringe la mano. Si sente improvvisamente unita a quel bambino sconosciuto, con cui condivide un futuro così incerto. Ora è come se la nave fosse scomparsa e ci fossero solo loro due a parlare, in un’enorme bolla di sapone, che fluttua sul mare.

STREMATI

Estremamente stanchi, portati al limite delle
proprie forze dalla fatica

Blank white notepaper design vector
COLPO DI STATO

Quando il sistema di governo di uno Stato e le
sue istituzioni vengono rovesciate con
un’azione violenta, di solito appoggiata dalle
forze armate o da gruppi militari

«Dopo due giorni di cammino io avevo tantissima sete, ma non c’era più acqua, mi facevano male le gambe ed ero stanchissimo. Quella notte, quando ci siamo fermati per dormire, ho guardato mamma e sono scoppiato a piangere . Lei mi ha abbracciato e io le ho chiesto scusa, perché avrei voluto essere più coraggioso. E poi la mamma mi ha accarezzato e mi ha detto che le persone più coraggiose sono quelle che ascoltano le loro emozioni, e se sentono che devono piangere, lo fanno. Da quel giorno ho pianto ogni volta che sentivo male, che avevo freddo, che ero stanco, che volevo tornare a casa. E dopo mi sentivo sempre meglio. Dovreste provare!» continua Oumar. Rim libera finalmente le lacrime, trattenute fino a quel momento. Oumar la abbraccia, prima di continuare: «Dopo un sacco di tempo che camminavamo, l’uomo che ci guidava si è fermato e ci ha detto che eravamo al confine con la Tunisia: «Arriveremo fino a Sfax, sulla costa, e da lì prenderete la barca che vi porterà in Europa. In questo momento la sorveglianza ai confini è maggiore, perché è stato fatto un nuovo accordo tra il governo tunisino e l’Europa, che dà soldi in cambio di una maggiore sorveglianza alle frontiere, per non far partire le persone. Dovete stare attenti. È tutto chiaro?». A me non era molto chiaro il tutto, ma avevo capito che era pericoloso e dovevamo fare attenzione». Oumar si ferma un attimo e prende fiato. «Ci sono voluti altri giorni a piedi per arrivare in città. Appena ho visto le case e le strade, mi è esploso il cuore, ho pensato che fossimo salvi finalmente. Ci hanno portato in un posto nascosto vicino al porto, dove c’erano già tantissime persone e hanno detto che dovevamo aspettare lì. Io mi sono appoggiato sulle gambe della mamma e, mentre lei mi accarezzava la testa, mi sono addormentato. Sono stato risvegliato all’improvviso tra grida e uomini con fucili e pistole; urlavano; dovevamo essere veloci, la barca stava partendo. E poi..» si ferma, li guarda e sorride. «Beh poi c’eravate anche voi no? Il resto lo sapete». 

«Certo» commenta Rim asciugandosi le lacrime residue. 

«Certo» concludono Mega e Bit scambiandosi uno sguardo complice. 

I quattro amici restano vicini, tenendosi tutti le mani, in silenzio. 

Skip to content